William Elliott Whitmore @Off Broadway, St. Louis (MO)


scritto da Marco Petrelli e illustrato da Damiano Olivieri

 

1. Da Champaign a St. Louis: finti tornado/acquaforte barocca con sneakers/l’insostenibile gentilezza del conducente/The Wasteland.
Sette aprile, un accesso di tosse mi sveglia prima del previsto. Cerco a tentoni il cellulare e apro cautamente un occhio. Quasi le otto del mattino. Tiro la tendina color nulla che si arrotola su se stessa e mostra la mattina: grigio ovunque e una nebbia fradicia che nasconde ogni cosa. Buongiorno, Illinois. Per addolcire l’atmosfera, da lontano e con un tempismo perfetto, iniziano a ululare le sirene anti-tornado. Non c’è nessun tornado, ma ogni primo martedì del mese la contea di Champaign esercita i nervi dei suoi cittadini. Al governo piacciono sull’attenti. Il Greyhound per St. Louis è all’una, quindi mi prendo tutto il tempo che mi serve per fissare le travi del soffitto e tutte le altre fondamentali ritualità mattutine, comprensive di sei once di acquoso caffè americano, notizie locali (brutte) e italiane (peggio). Viaggiare in pullman è già di per sé un’esperienza notevole, a metà tra la gita scolastica e la deportazione, a cui si aggiunge la perenne, drammatica musica classica diffusa nella stazione. Non scherzo, non c’è minuto della giornata in cui tra barboni, alcolizzati e giovani freestylers che gesticolano non risuonino le note solenni di qualche opera sacra, trasformando il terminal nella scena clou di un Van Sant d’annata o in un mystery play medievale (dipende dagli astanti). Arrivo in anticipo, ritiro il biglietto, entro in un posto chiamato Jon’s Pipe Shop. Il negozio è pieno di fumo, i clienti tirano lunghe boccate da grassi sigari, ridono e bevono caffè. Un vecchio con una pipa stretta tra i denti e un cappello a tesa larga chiede “Wha’ can I do fo’ ye young man?”. Chiedo un pacco di tabacco, pago (troppo, come sempre), esco. Fumo e aspetto, unendomi ai supplicanti del purgatorio gregoriano che è la stazione. Il Greyhound arriva in anticipo, il conducente strappa i biglietti e mi dice di buttare la sigaretta e muovermi a salire sull’autobus e che sono un pigro figliodibuonadonna. La cortesia degli autisti è rinomata in tutto il paese, e a me è capitato uno degli esemplari più innocui. Fino a St. Louis sono più di tre ore di pigro scorrere sulle piatte praterie dell’Illinois, talmente vuote e desolate che nessuno -a parte me- guarda fuori dal finestrino.

2. St. Louis: Huckleberry Finn Hostel/Historic Soulard/Lo spettro ubriaco del capitalismo.
Dopo tre ore di grigia, umida prateria, lo skyline di St. Louis all’orizzonte è come un miraggio. C’è addirittura qualcuno che fa delle foto, alzando per pochi secondi gli occhi dallo smartphone convenientemente collegato alle prese in dotazione sul sontuoso Greyhound. Mi accorgo solo ora che nessuno (nessuno) ha parlato per tutta la durata del viaggio. Il profilo della città è il seguente: grande palazzo di vetro e cristallo, discreto palazzo di vetro e cristallo, enorme palazzo di vetro e cristallo, ponti vari, Gateway Arch (acciaio inossidabile, ma indubbiamente impressionante, grigio e luccicante con la sommità che si perde nelle nuvole basse e pesanti), Mississippi. Attraversare il Mississippi è emozionante, e non c’è bisogno di spiegare perché. Ogni ponte su quel fiume è fatto di metallo & vecchi blues & catene che sferragliano & fedora bisunti & moonshine & d’America che corre verso il mare a cercare se stessa & non si trova & non si troverà mai. E Mark Twain, ovvio, l’uomo più intelligente del XIX secolo. Possiamo parlarne ma sarà difficile farmi cambiare idea. L’apprezzabile ironia del destino vuole che finisca in un ostello dedicato a Huckleberry Finn, pulcioso e scassato il giusto, in un cortile pieno di gatti e scale di legno dipinte di bianco, gestito da un certo Quinn. Quinn non ha superato bene la morte del flower power, ma non si può fargliene una colpa. È grande e grassoccio, ha una folta barba, occhiali con lenti viola e ride come il dottore pazzo di un film Hammer. Mi scrocca una sigaretta chiamandola “Magnificent Organic Cigarette” (rollare è una cosa abbastanza esotica da queste parti) e mi dice che la password per il WiFi è “ThisLanIsMyLan”, quindi Quinn è un dritto. I miei compagni di camerata sono un ragazzo di LA che vuole vedere il suo paese perché a trent’anni non è mai uscito dalla California (succede anche questo) e un PhD tedesco che non ho mai visto sobrio e che per tutte e due le notti che ho dormito lì rientrava a fine pomeriggio ubriaco fradicio, si buttava sul letto qualche minuto e usciva con una camicia pulita, rientrando puntualmente all’alba. Quinn sparisce con un sorriso luciferino e una spilla sul gilet militare che dice “I voted today”. Mi faccio spiegare come arrivare al locale del concerto, che è a poco più di un miglio dall’ostello attraverso il Soulard, uno dei quartieri più vecchi della già americanamente vecchia St. Louis. Soulard è il posto più bello che ho potuto vedere nel Midwest. Prendete i bassifondi di Parigi attorno alla fine del diciottesimo secolo, riempiteli di mattoni rossi, insegne al neon, edera, bar aperti fino alle prime ore del mattino e qualche palazzetto gotico e mettete tutto sulla riva del Mississippi. Suona benissimo, no?
Giusto di fianco al locale c’è l’enorme scheletro annerito dagli anni della birreria Lemp, ridotta al fallimento dalla vicinissima e ancora più enorme e minacciosa Anhauser-Busch (quelli della Budweiser, per intenderci). Sono in anticipo, mi faccio un giro tra silos di venti piani ed edifici dickensiani con le vetrate rotte e marchi scoloriti sulle pareti. A quanto pare il signor Lemp fu perseguitato dalla sfortuna per tutta la vita e lasciò questo mondo incazzato e in rovina. Dicono che il suo fantasma s’aggiri ancora per lo stabilimento in cerca di vendetta sui bevitori di Bud. Sono al sicuro, quindi. Sette e mezza. Schiaccio la sigaretta ed entro nel locale.

3.OffBroadway: Il fascino dell’antieroe/Interno con barba & slide guitar/Goodnight Irene/Willy Whitmore
Whitmore è all’ingresso, parla con gli avventori che tracannano grosse sorsate da tallboys ghiacciati e stillanti. È gioviale e sorridente mentre culla una bottiglia; esattamente come te lo aspetti: gentile ma ruvido, cappello a tesa larga sopra una barba incolta che nasconde un sorriso solare e affilato. Più o meno il risultato di un’anima intimamente punk cresciuta in campagna tra balle di fieno, banjos e whiskey. Non mangio da ore quindi mi dirigo spedito verso il bancone sperando in una robusta dose di grasso, malsano cibo americano. E invece no, tutto quello che hanno di commestibile è in bottiglia. Spinto da un insieme di superomismo, presobenismo e incoscienza, decido di cenare con tre pinte di ottima IPA artigianale. Mentre i miei sensi si affievoliscono insieme al mio inglese, guardo guardo il sole calare rossiccio sulla rossiccia città di St. Louis, a due passi dal Mississippi che tutti amiamo e che incondizionatamente ricambia il nostro amore, lercio e largo e lento.
L’ubriachezza mi aiuta a sentirmi a mio agio nonostante la solitudine, anche perché i presenti sembrano assolutamente accordati con il flusso dell’universo, qualunque esso sia. Ogni tipo di età e ogni tipo di forma (abbondano le forme tonde, come sempre), tatuaggi rozzi da motociclisti e fedora inamidati, felpe con zombies e camicie bianche immacolate. Un rilassato strafottersene del prossimo tuo che non è come te stesso. Apre le danze un certo Billy Skelton: open tunings, bottleneck e barba infinita, seguito da un altrettanto irsuto gruppo di fedelissimi in tono con la serata che promette uno scorcio di midwest rurale e malrasato. Blues. Whitmore incita l’incrocio tra biker e operaio in possesso del palco, applaude, sorride, parla con chiunque si fermi a dargli una pacca sulle spalle. Continuo con la mia ferrea dieta di Anti-Hero IPA, che mi sembra perfettamente in tono con il resto. W.E.W mi passa a fianco andando verso il bar, incrocio il suo sguardo, alza il mento in un colossale gesto di saluto da bullo. “Howsa goin”, chiede, “Great”, rispondo con un mezzo sorriso impastando un po’ le lettere, “Great”, risponde. Skelton il barbuto suona un pezzo dedicato al quartiere, tutti inneggiano, alza la sua pinta, saluta e scende dal palco. Tocca all’apertura personalmente scelta da Whitmore, Esmé Patterson, una ragazza pallida che (informa) ha scritto un album dove ogni pezzo è l’immaginaria risposta di una famosa donna di qualche famosa canzone. Il più delle volete queste tizie sembrano alquanto incazzate con i loro cantori. Irene di “Goodnight Irene”, Jolene, Eleanor Rigby (a Eleanor girano più di tutte). Whitmore mi passa di nuovo a fianco andando a mettersi sotto palco, “She’s badass”, mi assicura. Il pubblico, a ogni modo, sembra apprezzare, e applaude scrosciante dopo ogni pezzo. Saluti, “Grazie St. Louis”, luci basse. Tocca a Willy adesso.
Sale sul palco, all’improvviso, senza introduzioni e senza calcolati tempi drammatici. Poggia il bicchiere vicino allo sgabello, alza il braccio verso il pubblico. Intorno a lui un banjo a quattro corde, una Martin’s acustica, una specie di Jaguar hollow-body e la cassa di una batteria. Con una voce che è una sega arrugginita su un viale ghiaioso in un bicchiere di whiskey, introduce brevemente i pezzi che infila uno dietro l’altro, impreca continuamente e continuamente ringrazia. Intenso e tirato. Whitmore parla con il pubblico, sbatte l’asta del microfono dopo ogni pezzo e punta il suo ghigno verso di noi alzandosi a stringere mani. Dice che anche gli atei hanno bisogno del loro vangelo e, pestando sul pedale del crunch, specifica che il suo è un “Garage Gospel for Atheists”. Suona i suoi inni ribelli, canzoni piratesche sul vivere liberi (letteralmente inciso sulle sue dita), l’odio per gli sbirri, liquori distillati in casa e i campi di grano dell’Iowa. Una certa rustica poeticità in ogni ruggito lanciato dal palco. “Hell or High Water” e tutti alzano i bicchieri brindando al roco menestrello di Lee County; “Johnny Law”, la platea è un unico organismo ubriaco e sudato che balla e fischia alla polizia. Non c’è nessuno in sala che non sia ipnotizzato da Whitmore e i suoi ripetuti “Cheers” e “St. Louis, motherfucker!”. L’apice dell’empatia si raggiunge con un’eulogia del Midwest: “Siamo quelli che non ti aspetti, siamo i cavalli neri”, dice, e i Midwesterners esultano, prendendosi la loro rivincita sulle coste, almeno per stasera. C’è tempo anche per una cover dei Bad Religion, “Don’t Pray on Me”, meravigliosa. Del resto il tono secolare della messa serale era già stato affermato in apertura. Subito dopo, “Pine Box”, classico pezzo folk sulla morte dell’amata che evidentemente è più di un passaggio stilistico obbligato perché la voce di Whitmore si spezza. Si interrompe, riprova, non riesce, si porta una mano sul cuore e chiede scusa, buttando giù l’ennesimo whiskey, applaudito e consolato dal pubblico adorante. Qualcuno porta delle pinte sul palco.Il set si conclude poco dopo con “Our Paths will cross again”, che accompagniamo battendo le mani e cantando il ritornello a squarciagola. Ci vogliamo tutti bene stasera, sappiamo di essere stati parte di qualcosa di potente, primitivo e profondo. Il vangelo per atei della chiesa del reverendo Whitmore ha raccolto l’ennesimo gruppo di proseliti ubriachi, fradici e felici. La ragazza al banco dischi e magliette sale sul palco, si abbracciano, si baciano. La sua ragazza, evidentemente. Se ne va com’è salito, senza sensazionalismi o gesti plateali, fermandosi solo un attimo per ricevere le ultime strette di mano e firmare qualche vinile. Non posso fare a meno di chiedermi perché da noi qualunque stronzo una volta messo piede su di un palco s’incorona automaticamente semidio in un turbine di pose che vanno dall’eccessivo al ridicolo, mentre quest’uomo (che è stato in tour con Chris Cornell, Clutch e Murder by Death, tra gli altri) monta e smonta le sue cose ed è accompagnato solo dalla fidanzata che vende T-Shirts e Cd nell’angolo buio della sala. Non ho una risposta, però. Finisco il mio bicchiere, saluto il barman, esco

4. Coda
Un po’ barcollante, infinitamente stanco e totalmente felice, mi incammino verso casa. Accenno qualche strofa stonaticcia, “Lay hands off her body/It’s not your fucking life”. In giro non c’è un’anima, e tutto è silenzioso e tranquillo a parte qualche rara macchina che scivola sull’asfalto bagnato sotto i ponti. Un’insegna dichiara: “May the God of Your Choice Bless You”, mi tocco il cappello per salutarla. Poco prima di arrivare all’ostello mi infilo in un pub irlandese nella speranza di trovare finalmente cibo di qualche tipo e alleviare la perdita d’equilibrio. Troppo tardi. Quando il tipo al bancone mi chiede se può fare qualcosa per me gli chiedo una Guinness, confidando nei pochi passi che mi separano dal letto. Sono quasi le due del mattino e tre vecchi canuti (“The Irish Brigade”) infilano una ballata dietro l’altra. Canto con loro qualche pezzo dei Pogues, battendo il tempo fuori tempo sul tavolo appiccicoso di birra. Mi avevano detto che a St. Louis la musica non finisce mai.