Trentemøller @ Viper Theatre, Firenze – 24/09/2014

Partiamo con una domanda: cosa è la musica elettronica in Italia? Non ne siamo di certo sprovvisti. Se ci si mantiene nel sottosuolo si trovano validi e promettenti astri nascenti come Furtherset o K-Conjog (di quest’ultimo ve ne parleremo su queste pagine). Spostandoci sul mainstream e lasciando stare i Motel Connection ormai in giro da un bel po’, Bloody Beetroots, che dopo l’incoronazione ricevuta con Romborama ha deciso di compiere il salto della fede e parlare alle grandi masse, tramite il verbo di Gualazzi. Auguri. Questi sono solo un paio di nomi. Tanti altri me li sono fatti venire in mente, tanti altri mi saranno sfuggiti, ci sta, ma in un momento in cui la musica ricorre convintamene al crossover nel bene (naturale percorso evolutivo?) e nel male (sterilità creativa), un percorso come quello di Anders Trentemøller (più conosciuto come Trentemøller che come Anders) sembra vivere di vita propria.

Partito come dj dal “profondo” (deep/minimal house), nel 2014 Trentemøller è la personificazione del sincretismo musicale incarnato nel corpo di un producer. Oggi è mercoledì e lui e la sua band sono a suonare al Viper Theatre, Firenze, come evento speciale dell’interessantissima rassegna fiorentina Nextech Festival. Domani saranno a Milano, ai Magazzini. La sua discografia essenziale consta di tre album (The Last Resort, 2006; Into the Great Wide Yonder, 2010; Lost, 2013, più uno strumentale e un remix) dove la contaminazione si è vorticosamente e progressivamente andata attorcigliandosi sempre più in nuove forme: classica, pop, jazz, ambient et al. La tappa fiorentina consegna le chiavi dell’apripista a Johnny Hostile, capofila di un movimento mai abbastanza pubblicizzato.

L’inizio del set di Trentemøller, accompagnato da una band di elementi intercambiabili (sååå dansk) è accecante, sia per le luci che imbiancano l’intera scenografia, sia per Still On Fire, che a colpi di basso e clangori richiama tutti verso il palco, ché nemmeno il triangolo del pranzo con le giovani marmotte. La band è composta da due chitarriste/cantanti/ bassiste, basso, batteria più Anders e la sua isoletta di giocattoli, moog, kaosspad, radias (?), piatti e amenicoli vari. Il quintetto mena, per carità, ma la risposta del pubblico è infinitamente meno calda rispetto alla temperatura all’interno del locale. Si continua con momenti di crescendo (Past the beginning of the end) e momenti più intimi (Candy Tongue, in cui la graziosa cantante di cui alle 4:40 di mattina non sono riuscito a capire il nome, si mette al mic) e passando per il River of Life si arriva a Vamp, che suonata dal vivo sembra una via di mezzo tra Frankie Knuckles, Squarepusher e i Nine Inch Nails. Memorabile.

Le luci ormai si sono fatte magenta, la delicatezza e l’introspezione si spandono come lentissima neve su di noi: è il momento di Miss You, è il momento degli smartphone di merda. Passiamo oltre. È veramente godurioso ascoltare come le versioni dal vivo dei brani, soprattutto quelli del primo disco (Take me into your skin) suonino incredibilmente più profondi, completi, articolati e dinamici nella loro versione live, come se Trentemøller avesse concepito questa musica per un’orchestrazione di questo tipo. Si arriva al neo post rock (scherzavo, ovviamente) dell’ottima Trails, iniziale loop tipo oroboro metallico, espansione à là Massive Attack, finale alla Satoshi rivisto e corretto. Il primo set si chiude con Come Undone, ancora una volta, così attoniti noi, così cangiante l’orizzonte delle intenzioni di questo concerto, non prima di aver sentito l’ultimo brano, Moan, tradizionalmente mashata con Lullaby dei The Cure.

Nell’attesa di far risalire sul palco i nostri eroi di stasera, un pubblico sempre più freddo, almeno a chiazze, non sa che starà per lasciarsi andare almeno dieci minuti prima di andarsene a letto. Il rientro è di quelli lenti e solitari, con …Even though you’re with another girl e Gravity, che dal vivo suona molto più vicina ad un pezzo degli Arcade Fire, pur mantenendo la dolcezza del disco. Finalmente la batteria dubstep di Never Stop Running (anche qui una violenza anni luce dall’original mix) e la closing track Silversurfer, Ghost Rider Go!!! fanno partire un minimo di crowdsurfing, e qualche contatto umano. Parafrasando il linguaggio sportivo, Trentemøller porta a casa una prestazione quasi perfetta. Avrebbe meritato l’invasione di campo.

Bernardo Mattioni