Gentlemen’s Agreement

I napoletani Gentlemen’s Agreement ci hanno in passato sorpreso con poetica country di racconti rurali (Let me be a child) e una personalissima
interiorizzazione della cultura brasiliana (Carcarà). Ora condensano l’eclettismo e il talento dimostrato al servizio di un progetto ampio e articolato, ben compiuto in tutte le sue fasi. Partiamo dalla fisicità del prodotto discografico. Una vite con un bullone tiene chiusa la bianca custodia di cartone pesante. “Un oggetto di arredamento unico che
contiene un disco eccezionale”.
Non certo un lavoro fine a se stesso. Il concept grafico è l’involucro esterno di una narrazione testuale e musicale che scorre lungo le 14 tracce delineando una visione unica, omogenea: la liberazione dal sistema fabbrica per un ritmo di vita più armonico nel mondo. Un concept-album che racconta del passaggio da un sistema produttivo economico mortificante, innaturale, soffocante in favore di stili di vita più lenti, armonici, de-urbanizzati; parliamo di decrescita serena della produttività e sostenibilità.
L’album è strutturato in 4 parti, ciascuna introdotta da una breve traccia denominata Leitmotiv a rappresentare l’inizio di ogni capitolo (Incubo, Consapevolezza, Risveglio, Evoluzione).
In apertura uno scenario industriale di reiterazioni cicliche alienanti da cui la mente cerca riparo nella distrazione o nel sogno, implacabilmente interrotto dalla sveglia dell’operaio che “esplode” ogni mattina. Il coro di Moloch! ci colloca subito fra luci al neon e “la voce da gigante” dell’apparato coercitivo della fabbrica, poi lascia spazio al lamento lirico. Testi e arrangiamenti curati, di vocazione visuale, come fossero scritti per un musical. Rimandi suggestivi e uso raffinato di un repertorio culturale globale; nel caleidoscopio musicale, fra rumori industriali, ottoni graffianti, ritmi samba (spesso usati da Piero Piccioni per il cinema italiano del boom industriale), compaiono anche il rock e i Velvet Underground
(Mordi! Prendi! Vivi!).
Cambio di scenario. Un’esplosione utopica (Kaboom! Chiude la fabbrica) raggiunge il culmine fra tamburelli e ritmi del folk festoso del sud Italia. “L’autostrada è tutta fiorita e piantiamo gli orti in città / Sai, questo è un tempo un po’ anormale, si regredisce per creare / Ci serve un sogno da inventare, una campagna da occupare!”. I piedi lo sanno commuove. La consapevolezza giunge come in sogno e porta al terzo capitolo, il Risveglio, di cui Adeus contiene il manifesto (Se vivo più lento, decido il mio tempo, ora io ho tempo / Sacra più di Dio sei terra mia sacra più di Dio) con richiami a scenari tropicalisti (e mi fermo qui, ché gettare un ponte con la ricerca della poesia concreta brasiliana sarebbe un azzardo). È tutta un’utopia, un sogno, ma non scevra di intento politico: “I sogni addestrano al mondo” (Il tempo del sogno).
Unica nota sanzionatoria: il titolo. Per il gusto del gioco di parole e della citazione si è persa la possibilità di trovarne uno più rappresentativo e originale.
Le registrazioni sono state pagate tramite baratto, i musicisti hanno offerto al Sud Est Studio di Guagnano di pagare ristrutturando i loro locali e hanno realizzato un video di questi lavori, e infine il disco è stato diffuso con licenza Creative Commons, in aperta opposizione al sistema di gestione monopolistico della SIAE. Due operazioni che portano lo storytelling fuori dall’opera, adeguando al concept dell’opera tutte le fasi della produzione e distribuzione. Forse la prima volta che questa operazione viene effettuata in Italia con efficacia, coerenza e correttezza.

 

di Alberto Sartore