YPSIGROCK FESTIVAL 2011

Ho preso una borsa morbida, modello Naione, con il doppio fondo e così capiente da contenere tutto il disagio accumulato in un lungo inverno di nebbie interiori e non. Ho chiamato un amico con cui non andavo in vacanza dal ’97 e sono bastati un paio di costumi, tre magliette e un telefono non intelligente per farmi sentire pronto. Sono andato in Sicilia, sono andato all’Ypsigrock,il festival indie che senza troppo giri di parole superflue: “ti mangia il cuore”. Accade ogni anno in Agosto da 15 anni a questa parte, è un culto d’amore che si celebra in un Castello che pare scappato dalla matita di Mihazaki per adagiarsi in cima alle Madonie e ramificare introno a sé vicoli brulicanti di rosticcerie, barbieri e bar arredati come 60 anni fa. Si chiama Castelbuono proprio per chiarire i concetti. L’anno scorso mi è successo di capitarci e di vivere brividi così intensi da chiamarne il bis e così eccomi di nuovo errante, imbrattato di sole e con un sorriso ebete pintato in faccia che manco fossi sbirulino,diosanto. Il cartellone parla chiaro e detta i tempi di masticazione, deglutizione e rigurgito della bole musichifera. E se il mattino ha l’oro in bocca, il venerdì ha l’alito cattivo non tanto per le stratificazioni dei Captain Quentin, quando più per la vinaccia della casa dei bar nei vicoli. A seguire il folk scarno e denso di riverberi del barbuto Josh T.Pearson, un fauno decisamente più pittoresco a vedersi che bravo a sentirsi. Canzoni che vorrebbero rivendicare la provincia ma hanno smarrito nervo per articolare emozioni e così collassano su sé stesse incapaci di comunicare, gelide come solo certe ragazze di città.
A sbuffare via il disagio ci pensa il rock moda-mare ’82 di Twin Shadow che snocciola perle di chillwave à la Neon Indian, passando per Morrisey via ciuffo e canotta aderente. Protagonisti indiscussi della serata: i Pere Ubu di David Thomas, che ormai ha raggiunto le dimensioni spaziali del Sig. Creosoto dei Monthy Piton Portano in scena il glorioso capolavoro post-punk “Modern Dance”. Opera-rock lacerata dai moniti apocalittici, performata da un Mr.Thomas in gran rispolvero, abbigliato come un nonno di montagna il cui passatempo preferito è centrare la sputacchiera del circolo Opera Pastori con palle da tennis di catarro fluorescente.

Il sabato è costruito per ballare, provocare, ballare ed espellere in ogni forma i liquidi ingurgitati. Si parte con il tropicalismo nonsense degli stralunati Honeybird & The Birdies, e di contrasto si passa all’oscurità electro-wave di Esben e strega annessa. Durante lo show di questi ulimi Esben & The Witch sono assalito dalla sindrome “Paolo Frajese”, ossia mentre la cantante si tarantola in un’intro di 5 minuti abbondanti, sento l’irrefrenabile impulso di catapultarmi sul palco e infilarle un rosario liberatorio di calci nel culo. Mi trattiene solo il mio immenso senso civico e la pietas infusa dal contesto sociale in cui sono cresciuto. Mi soffio sulle unghie con finto fare distratto… Ma passiamo al piatto portante della serata è la shoegaze super90’s degli Yuck che ondeggiano manco fossero i Ride e fanno sballare con frustate d’eco in pieno stile “la Mia Valentina Sanguinante”. A seguire il set 80’s di Junior Boys così patetici da farti rimpiangere i Simple Minds. Giusto il tempo di uno slalom speciale tra birrette sgasate e briochine al gelato di pistacchio grandi come la mia testa ed è tempo di far mattino al campeggio di San Focà con i djset di Fabio Nirta e Robert Eno.

La domenica si inizia con il cantautore locale Dimartino a cui non deve dispiacere certo la vena sbroccante del nostrano Rino Gaetano ma con un pizzico in più di quella passione per la pasta con la sarde che lo rende benvoluto dagli indigeni. Si continua con la dubstep di Mount Kimbie antipastino elettro per i signori Mogwai che catalizzano ogni attenzione con un set così fitto da oltrepassare i cancelli del giudizio sensoriale. La band scozzese stende la folla con quasi 2 ore di rock apocalittico. Un suono stratificato e avvolgente che riesce perfettamente nell’intendo di creare il panico per sguazzarci dentro come solo i veri provocatori sanno fare. Il live s’incentra maggiormente sul recente disco “Hardcore will never die, but you will’” ma lascia spazio anche a vecchie glorie del calibro di “Mogwai Fear Satan”, “Fright of the Night”, “Mexican Grand Prix” e altre perle in cui l’hardcore strizza l’occhio alla trance senza perdere identità di razza. Un suono maschio, scozzese, ubriaco, lucido, nervoso, esplosivo, delirante, pelato e immenso cazzomerda.

Vorrei chiudere con fare strafottente e citazione trash italiota à la Califano, roba tipo” Tutto il resto è noia” o tipo qualcosa di abbagliante à la Thomas Miliàn, chessò “Mortacci Soya”. Invece devo confessarvi di essermela spassata di aver visto da lontano solo un paio di ristoranti cinesi, senza essere mai costretto a varcarne la soglia.
Rosso come un peperone ripieno e gonfio di cassatine, rustici, panelle, birra sgasata, paste con le bestie di mare e antipasti rustici, rotolo verso l’aereo e mene torno affanculo da dove sono venuto.
Sìssignore…!

(Tum)