Il Santo Niente

Quando il Pollastro mi ha annunciato che avrei intervistato il Santo Niente, creatura rock di Umberto Palazzo, straordinario artista che dalla metà degli anni ottanta solca mari e sottosuoli musicali nostrani seguendo personalissime e luminose rotte, sono quasi svenuto.
Non sono un giornalista né un critico musicale e non ho mai intervistato nessuno, tanto meno qualcuno dei miei eroi. Questo per giustificare il quasi svenimento e ogni altra cosa che verrà, da qui in poi. Ho scoperto il Santo Niente da poco più d’un mese e in un modo abbastanza strano. Quando mia nonna (pace all’anima sua) s’incazzava, usava dire: “mannaggia santo niente”. Me n’ero ormai dimenticato, fino a quando non mi sono imbattuto nel nome di questa band. Poi è accaduto tutto molto rapidamente, dal ricordo delle imprecazioni ai disperati tentativi di reperire la roba del Santo, alla felicità di averla trovata (“Il fiore dell’agave”), alla folgorazione del primo ascolto, alla Santodipendenza conclamata. Se sul Grande Raccordo Anulare, alle 8 di mattina, vi capiterà di beccare una fiat punto scalcagnata con a bordo un tizio barbuto e con le cuffiette che strilla ,beh… quello sono io;  e non sto strillando. Canto il Santo Niente.

Vi amo, maledetti.  (Il Santo Niente)

La bellezza è una velata contraddizione.  ( J.P. Sartre)

Santo Niente, sei davvero tu? ¿O estás El Santo Nada?
Intendi dire se il Santo Niente s’identifica al cento per cento con me? Assolutamente no!
Io credo nella band come idea e nel fatto che una band non abbia un suono qualunque, ma sia un suono messo a fuoco. Credo che ogni band debba avere il suo suono e che questo non debba somigliare a quello di nessun’altra band. Per questo c’è bisogno di personalità, talento e tecnica. Io parto dal concetto che Umberto Palazzo deve essere lo strumentista più scarso della band e che voglio suonare con grandi musicisti. Per me ritaglio un ruolo speciale nella composizione dei testi, nell’arrangiamento e nella direzione musicale, ma il suono, che è collettivo, nasce da un durissimo e estenuante lavoro in sala prove.
Ovviamente un aggregato del genere è sempre sul limite dell’esplosione e della rivolta, ma creativamente non delude mai. Questa versione del Santo Niente è, secondo me, la migliore che sia mai esistita.  E’ formata da Alessio D’Onofrio e Raffaello Zappalorto, con cui suono oramai da otto anni e da due nuovi arrivi: Alessandro “Pax” Paci e Christian Carano. Pax è il batterista e viene da un progetto sperimentale  che avevamo creato per spalleggiare Damo Suzuki in una data dalle nostre parti. Christian (aka Go, Lemmings, Go!) suona un po’ di tutto e soprattutto ha una magnifica voce. Sono elementi che hanno un’importanza fondamentale nel suono che si è generato. Comunque, se e quando farò un disco da cantautore, non farò certo finta che si tratti del disco di una band.

Nietzsche, Marx, Adorno, Cioran (tutti in fila in “Occhiali scuri al mattino”),  Madame Bovary (in “‘Sei na  ru mo’no wa na ‘i”) e in generale una scrittura molto accurata dei testi (forse basterebbe allineare i titoli di tutti i vostri pezzi per scrivere un racconto). E poi la sorpresa del Santo Nada, dove invece le parole scompaiono del tutto.
Col passare degli anni diventa sempre più evidente un fenomeno abbastanza triste e molto italiano: la critica e il pubblico fanno sempre meno attenzione alla musica in quanto tale. Gli arrangiamenti diventano sempre più piatti e privi di fantasia e le recensioni dei dischi in italiano parlano solo dei testi, quelle dei dischi in inglese solo della voce e delle melodie. E’ abbastanza inquietante: ho l’impressione che non ci sia più la capacità di decodificare il contesto in cui le parole e la voce vengano inserite. Abbiamo pensato, quindi, che far ascoltare solo quello che suoniamo (ma si tratta di materiale nuovo, non versioni strumentali di cose già fatte) distogliendo l’attenzione dai miei testi, avrebbe avuto un impatto positivo e per la verità i risultati sono andati oltre ogni aspettativa.
Il nostro pubblico ha reagito  in maniera veramente elettrica e questa faccenda è diventata molto seria, infatti stiamo registrando proprio in queste settimane.

Quanto dovrò attendere per spararmi nelle orecchie il nuovo lavoro del Santo Niente? Come suonerà?
Il difficilissimo quarto album…
Abbiamo scritto solo due pezzi finora: “Luca Prodan” e “Cristo nel cemento”.
Senza falsa modestia sono grandissimi pezzi e sentiamo un’esigenza di coerenza interna dell’opera che prima non era così forte. Più che altro abbiamo fissato dei principi: prima di tutto non ci saranno canzoni scritte interamente a casa, ma solo cose in cui l’elaborazione collettiva sia stata fondamentale (quindi quello che inevitabilmente scrivo a casa andrà a finire da qualche altra parte). L’altra è che i due pezzi che abbiamo già finito fissano lo standard al quale ci dobbiamo attenere e al di sotto del quale, per nessun motivo, dobbiamo scendere e la terza è che quello che facciamo non debba somigliare a cose che abbiamo già fatto. Puoi capire quanto sia difficile il lavoro che stiamo portando avanti e quanto sia imprevedibile il risultato. Per altro è un gioco molto rischioso, tutto condotto sul filo del rasoio e all’insegna dell’instabilità e dell’incertezza.
Auguraci in bocca al lupo!

Ascoltando “Il fiore dell’agave”, datato ormai 2005, si ha l’impressione di un equilibrio miracoloso tra musica,  testi e voce, ma anche di una straordinaria fusione tra aspetti contrastanti: profondità e leggerezza, rabbia e dolcezza, fragilità e potenza.
Credo che il trucco (che non è un trucco, ma durissimo lavoro) sia quello che ti dicevo prima a riguardo della focalizzazione del suono. Nel caso del “Fiore dell’agave”, la preparazione è durata anni, ma la realizzazione è stata fulminea. Solo cinque giorni con tutti i pezzi incisi dal vivo, praticamente al primo colpo.

“Lode ai tuoi amici”, rifatta dal Santo Niente nell’album-tributo “Il Dono” è la migliore cover mai realizzata al mondo, meglio dell’originale. La voce di Palazzo e quella di Fiumani sono le più belle voci rock in circolazione, senza fronzoli, ruvide e affilate. Altri motivi dietro la riuscita del pezzo?
Sei veramente troppo buono. Io non amo moltissimo la mia voce e ogni volta che devo cantare un pezzo nuovo sto male per una settimana e quando sono in sala di registrazione vorrei sempre cantare un’altra volta. Per quanto riguarda la riuscita della cover va detto che il solo di Alessio è pazzesco. Fiumani è rimasto a bocca aperta. Federico ci ha detto che Maroccolo considera il Santo Niente le migliori chitarre italiane e che lui non può che essere d’accordo.

E se, al contrario doveste scegliere voi una band o un cantante a cui “affidare” un pezzo dei Santo Niente, chi scegliereste?
Io non mi considero neanche un vero cantante, ma allo stesso tempo non riesco facilmente a immaginare che una mia canzone possa essere cantata meglio da un altro. Mi è più facile immaginarla cantata da una donna, perché allora diventa proprio un’altra cosa, viene trasposta anche un’ottava sopra e assume significati diversi. Comunque sono un baritono e come modelli ho dei cantanti simili a me. Se fossero ancora vivi forse concederei una chance a Johnny Cash e a Fabrizio De Andrè. Fra i vivi potrei al limite optare per Nick Cave o Mark Lanegan.
Sicuramente rimarrebbero atterriti dalla responsabilità (sto scherzando, ovviamente).

Qualche tempo fa “alias”, l’inserto culturale del manifesto, ha titolato in prima pagina: “Rock: la rabbia è sparita”, sostenendo che nell’era della velocità digitale e dell’orizzontalità (tutti pensano di saper fare tutto e pochissimi sanno fare le cose davvero per bene) anche la rabbia, ingrediente fondamentale della musica popolare, rischia di diventare del tutto virtuale. E’ vero?

Questa è una fantastica domanda e richiede una riflessione e un’analisi approfondita.
Vorrei separare l’argomento “rabbia” dall’argomento “tecnologia”.
Affronto prima il secondo.
Sappiamo tutti che non è possibile dare una definizione univoca di arte, ma alcune cose sono pacifiche. Una di queste è che un elemento essenziale che definisce un’opera d’arte in quanto tale è la sua eccellenza.
Qualcosa che tutti possono fare, qualcosa che tutti fanno senza alcuno sforzo, non è arte e non può essere interessante in sé. La pubblicità e la comunicazione possono creare un certo temporaneo interesse su particolari artefatti che possono contenere un certo motivo d’interesse, ma si tratta di un’impressione passeggera.
Il fatto che la Cera Pongo sia più facile da modellare del marmo di Carrara non trasforma chiunque la maneggi in un artista plastico e, tutto sommato, l’”orizzontalismo digitale” mi sembra un’estensione fuori tempo massimo della mania del remix tipica della fine degli anni novanta.
Mi chiedo se ci sia ancora qualcuno che ascolti quella roba? Dubito che lo facciano gli stessi remixer.
Invece se, per esempio,  si ascolta un disco di Will Oldham registrato nello stesso periodo, ma con lo stesso approccio che c’era in sala di registrazione negli anni venti, ci si accorge che il suo materiale non ha perso niente dello smalto originale, anzi ha acquistato qualcosa.
Quello che fa la differenza è il talento.
Il talento non si consuma e non passa di moda (e per questo non è mai di moda). Il talento è vivo e quindi diviene. Non c’è nessun software che possa simulare il talento.
E quello che c’interessa è il talento o la mancanza di esso? La risposta mi sembra ovvia. Il resto è moda e passa senza lasciare traccia.
Un’altra cosa che c’è da dire è che l’elettronica ha smesso di essere una novità rivoluzionaria da almeno dieci anni. La musica ha sempre compiuto dei grossi balzi evolutivi in concomitanza dell’introduzione di innovazioni tecnologiche e questo è un fenomeno antichissimo, basti pensare all’impatto del clavicembalo sulla musica eurocolta. Il fenomeno, per ovvii motivi, ha subito un’accelerazione a partire dall’inizio del ventesimo secolo.
Abbiamo avuto l’invenzione della batteria, del disco, della radio, della chitarra e del basso elettrici, del microsolco di vinile, del nastro magnetico, della registrazione multitraccia, del sintetizzatore, degli effetti digitali, del cd, del campionatore, del computer in ogni casa, della compressione dei file musicali e di internet.
La musica generata dalle innovazioni è interessante e viva finché può ampliare le capacità dell’artista, poi la sua spinta inizia a decadere. Nella fase in cui ci troviamo il digitale è diventato talmente potente che il confine ultimo delle sue potenzialità è molto al di là delle possibilità umane. Oggi chiunque potrebbe fare “Kid A” a casa propria, però la maggior parte degli utenti di Ableton Live si limita a scaricare campionamenti e loop da Internet e a riassemblarli in maniera più o meno competente, senza fare il minimo sforzo. E’ qualcosa che può, per così dire “funzionare”, ma a livello di arte, a livello di musica, a livello di creazione pura le cose fatte così sono piuttosto insignificanti e, inoltre, il pubblico “reale” non abbocca, perché il vero pop e la vera, nobile dance sono comunque musica elettronica.
Il pop degli anni zero non è quello  di matrice beatlesiana come si pensa ancora troppo ingenuamente. La forma vincente del pop è il cosiddetto r’n’b. Il pop è Timbaland, che produce elettronica pura e di altissima fattura artigianale.
Siamo quindi in un periodo, per così dire, “digestivo”, in cui gli artisti riassemblano materiali preesistenti per creare cose nuove e adattarle alla situazione presente, che non è la possibilità di creare la musica elettronicamente, ma la scomparsa del supporto fisico della musica. Il fenomeno è più sottile e per ora è solo per orecchie ben allenate e prive di pregiudizi.
Ho fatto un giro lunghissimo, ma non sapevo come evitarlo. Mi scuso con te e con i lettori. Quello che voglio dire è che secondo me l’orizzontalità non c’entra nulla con il fatto che non ci sia più rabbia nella musica rock.
La rabbia, l’ultima ondata di rabbia è stata volutamente esclusa dalle cose accettabili dalle belle anime a partire dalla fine degli anni novanta e comunque la rabbia non è una presenza costante nel pop-rock. Ci sono ondate e artisti che riescono a incarnare l’angoscia generazionale, ma vengono costantemente riassorbiti e spinti ai margini o costretti a cambiar pelle.  Per capirci, per ogni Elvis ci sono mille Pat Boone, per ogni Chuck D ci sono mille Puff Daddy e l’emo è un’infinita parodia di una parte di Kurt Cobain mischiata a una parte di Freddy Mercury.
Divago ancora una volta. Io insegno storia della popular music al Conservatorio di Pescara. Nel corso di quest’anno mi sono soffermato un po’ di più sullo studio della popular music dei paesi sottoposti a regimi autoritari. Un po’ ingenuamente mi aspettavo una collezione di marce militari, truci e solenni e invece niente di tutto ciò.
Certo non mancano gli inni patriottici, ma quello che caratterizza la musica pop di regime è la sua totale innocuità.
Ci sono solo canzonette leggerissime e spensierate per decreto. Allegrotte. Prive di qualsiasi accenno a forme di disagio. Consolatorie. Fasulle. Completamente inconsistenti e prive d’anima. Ripulite, edulcorate e omogeneizzate.
La superficialità è il valore assoluto.
Mi viene in mente Hunter S Thompson, che a un certo punto di “Paura e delirio a Las Vegas”, al culmine del disgusto, dice che Las Vegas è quello che tutto il mondo farebbe il sabato sera se il nazismo avesse vinto la seconda guerra mondiale.
La maschera della dittatura è sempre gioiosa e soddisfatta. La rabbia è dissenso, quindi va tenuta nascosta. E’ un errore pensare che ad alti livelli di manipolazione non ci si preoccupi della pop music. La gran parte della programmazione radio televisiva è fatta di canzoni: come si può credere che non ci sia lo stesso controllo sulle canzoni che c’è sull’informazione e sui film?
Per concludere: la rabbia e la radicalità possono dar fastidio e creare imbarazzo, ma sono espressioni di un corpo sano e libero. La loro assenza è un sintomo grave, molto grave.

Umberto, hai vissuto la Bologna della seconda metà degli anni ‘80, non era il blasonato ’77 ma stiamo comunque parlando di stagioni e luoghi fertili; hai inventato, assieme a Emidio Clementi, un gruppo seminale come i Massimo Volume; e, sempre a proposito di “luoghi” fertili, il Santo Niente è passato dalle parti del Consorzio Produttori Indipendenti. Sembreresti la persona giusta a cui chiedere come sta messa la creatività musicale (e non solo), oggi, in questo Paese.
Il mio vero lavoro è quello di gestire un circolo culturale, il Wake Up! di Pescara.
Organizzo concerti tutte le settimane e ho la fortuna di conoscere in continuazione giovani gentildonne e gentiluomini di  grande talento.
Purtroppo per loro, vivono in Italia e mi duole dire che l’ambiente che li circonda è completamente sterile e ostile. Mi sembra evidente che sia quasi impossibile trovare un sostegno economico alla creatività. Quindi questa è un lusso per pochissimi fortunati e per coloro che hanno una famiglia ricca alle spalle che li possa sostenere.
Voglio aggiungere che gli italiani sono uno dei popoli più ignoranti in fatto di musica a causa di un’istruzione musicale scolastica fra le peggiori del mondo. Un’altra fra le tante cose italiane indegne di un paese civile.

Sarà una banalità, ma a me sembra una costante: l’indipendenza fa bene al processo creativo ma non altrettanto alla popolarità; approdare ad una major inverte gli influssi, con tutte le conseguenze del caso. E’ accaduto ai Marlene Kuntz, agli Afterhours, con i quali condividete più o meno gli esordi. Accadrà anche al Santo Niente?
Non credo proprio. Ai tempi del secondo album, che fu pubblicato da una major, tutti si aspettavano che fossi ragionevole e cercassi una mediazione commerciale che rendesse il suono del Santo Niente più commestibile. Invece ho realizzato quello che probabilmente il disco più radicale e duro mai pubblicato da una major italiana. Ovviamente sono stato scaricato all’istante, ma ho creato un precedente che probabilmente ha spianato la strada ad altre band ora famose. Se ho avuto coraggio allora, con un budget alle spalle e con addosso la pressione e i ricatti dei discografici, figurati come la penso ora che non ho niente da perdere e posso farmi i dischi da solo.

Non è proprio semplicissimo trovare la roba del Santo Niente presso la distribuzione “ufficiale”. Che ne pensate…ehm…di chi scarica musica dalla rete?
Nella mia cartella di Soulseek c’è tutta la mia produzione. Penso che la soluzione più logica sarebbe rendere tutti i download gratuiti, però devolvendo agli autori una parte del costo degli abbonamenti a internet, che devono due terzi del loro appeal commerciale al download  per così dire illegale. Ma siccome questa è una cosa logica e giusta è molto difficile che venga realizzata.

Quali altre “nuove cicatrici” sperate di collezionare?
Anche la vita più felice e serena riserva moltissimi dispiaceri e alcuni di questi diventano canzoni.

Umberto, una curiosità personale: che ne è stato della laurea in legge?
Ho scoperto che non sono il tipo di persona che se ne può giovare e quindi ho lasciato perdere. Non ho mai ritirato la pergamena.
(Littlerunner)
Per saperne di più: www.myspace.com/santonienteband